L’Università italiana finanzia la ricerca all’estero

L’Università italiana finanzia la ricerca all’estero

L’ Università italiana, in deficit di fondi e di progetti, da anni finanzia la ricerca di Paesi come la Francia e la Germania. È l’effetto perverso che il nostro Paese produce all’interno dei piani strategici di ricerca europei. Pochi dati per dare le dimensioni dello spreco italiano: nel piano Horizon 2020 l’Italia contribuisce per 11 degli 80 miliardi complessivi, che equivalgono al 14 per cento dei fondi. Nel 2014, primo anno di attuazione del piano, su 328 ricerche finanziate ne sono state approvate 28 italiane. Ma solo dieci progetti hanno avuto come sede una università del nostro Paese, cioè neppure il tre per cento: gli altri ricercatori, pur di nazionalità italiana, hanno preferito sedi estere. Francia e Germania ospiteranno 30 e 48 progetti. Insomma, un’altra storia. Nel programma precedente (2007-2013) l’Italia e la molto meno popolosa Svezia hanno ottenuto gli stessi finanziamenti. Le cause della poca attrattività italiana sono più d’una. La mancanza di fondi e di certezze per i ricercatori è la prima. Pochi mesi fa lo speleologo Francesco Sauro, incoronato dal Time tra i 10 scienziati che cambieranno il pianeta, ha ottenuto un rinnovo della borsa di ricerca solo per il clamore suscitato dalla rivista americana.

Ma un’altra causa del male universitario italiano è da ricercare nel sistema stesso: a puntare il dito contro la mancanza di «capacità progettuale» è lavoce.info , che suggerisce anche alcuni miglioramenti da attuare copiando le esperienze che funzionano: prima fra tutte la creazione di strutture che sostengano l’internazionalizzazione e la partecipazione alla valutazione dei progetti di ricerca. Peccato che l’ultima versione e del piano nazionale per la ricerca, presentato dal governo a maggio, rimodulando l’uso di fondi per lo più già stanziati dalla legge di Stabilità del 2014, destini all’internazionalizzazione degli Atenei solo il 5 per cento dei finanziamenti.

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